Dall’intervista dell’amica e scrittrice Eleonora Goio del 14 settembre 2016 per la serie «Se diventassi Disabile anche io?», giungiamo a quella di Claudio Razeto attore di una vita ammirevole e protagonista di uno “sliding doors” inaspettato che lo ha reso Disabile.
La domanda che nessuno si pone è sempre: «Se diventassi Disabile anche io?»
Nel 1998, quando vidi per la prima volta il film “Vi presento Joe Black”, mi colpì una frase di Anthony Hopkins, nella storia era l’editore Bill Parrish, che esprimeva un concetto ben chiaro: «Riportare le notizie è un privilegio!»
Anche e non solo per questo principio, le risposte alle interviste di Disabili DOC sono sempre state scritte dai loro protagonisti sulla base di precise domande e propostevi senza alcuna modifica. Questo perché è meglio non perdere sfumature che solo il protagonista non si lascerà sfuggire.
Questa mattina ho posato gli occhi su quanto ora anche voi potete leggere e… eh sì, ho viaggiato cavalcando una vita che non era la mia. Sono passato da una città all’altra, ho preso elicotteri in zone di guerra e ho rivissuto una parte di quella storia che, in quanto 57enne, ben ricordo; poi però il racconto è cambiato pur mantenendo un’intensità estremamente coinvolgente.
Quella che state per far vostra è la storia di un uomo, Claudio Razeto, ma anche di come la vita può cambiare e forse cambiarci.
Buona lettura!
L’intervista
D: La prima domanda serve a scaldare il motore, quindi: chi è Claudio Razeto? In altri termini, raccontaci la tua vita prima di giungere al mondo del lavoro.
R: Sono un 56 enne che in fondo voleva solo volare. Classe 64, romano di nascita. Mezzo ligure e mezzo cremonese di origine.
Da parte di mio padre naviganti e marittimi. Di mia madre artisti, coristi d’opera.
Arrivati nella Capitale, la mia città, per il lavoro del capofacapofamiglia.
A 17 anni ho preso il brevetto pilota privato. Volevo pilotare aerei come mio padre, comandante di B747 in Alitalia. Volevo vivere avventurosamente. Viaggiare, conoscere. Ma soprattutto fare qualcosa che mi piacesse nella vita. Forse per questo il mio itinerario è stato vario e pieno di cose che sembravano scollegate tra loro e che invece con gli anni, hanno avuto pienamente senso. Connettendosi tra loro. Facendomi fare un mestiere particolare che mi ha dato grandi soddisfazioni. Il pilota non l’ho potuto fare, perché a 20 anni un calo di vista mi ha obbligato a mettere gli occhiali. Invece dell’accademia militare (sognavo la Marina) mi sono iscritto a legge e per distrarmi, ho iniziato a scrivere sui giornali. Ho sempre scritto bene. E scrivere, comunicare, mi ha un po’ cambiato la vita. Dal giornalismo alle radio, tv private, uffici stampa. L’editoria è un settore che non ho mai lasciato in oltre 30 anni di lavoro e che seguo anche oggi sui nuovi media.
D: Una delle componenti più importanti di ogni umana esistenza è quella che romanticamente definiamo «La nostra dolce metà». Esiste una Signora Razeto o…? Poi comprenderai il senso di questa domanda, per ora regalaci qualche “spetegules”.
R: Esiste certo per mia fortuna. L’unico dispiacere è di averla incontrata da “grande” a 40 anni dopo un divorzio e svariati esperimenti. Donata o Donatella, come piace a lei, è la mia forza, un pilastro, e in questa fase di vita la colonna su cui si basa la mia vita.
Chissà se l’avessi incontrata prima. Me lo chiedo spesso. Lei è la mia caregivers. Senza sarei perduto.
D: Prima di giungere all’ambito lavorativo fai anche del volontariato. Cosa ti è rimasto di questa esperienza e, se ce l’hai, qual è la tua visione del mondo associativo italiano?
R: Da ragazzo frequentavo la Chiesa. Facevamo tante cose. Anche volontariato senza accorgercene visto che alcuni portatori di handicap passavano con noi le giornate, come persone cosiddette normali. Un caro amico era don Mario Torregrossa un sacerdote che ha creato un centro di formazione giovanile a Roma sud. Purtroppo è stato vittima di un un’attentato che lo ha portato a lasciarci molto, troppo, giovane. Era una vera ispirazione per i giovani. Ci manca molto.
Sono tornato al volontariato dopo la mia entrata nel mondo della disabilità.
Collaboro con l’associazione italiana laringectomizzati AILAR di Roma e il suo Presidente Roberto Persio una persona eccezionale che molto giovane ha subito il mio stesso intervento, tornando a parlare.
Quello dei laringectomizzati è un mondo poco conosciuto anche se ci sono almeno 5.000 casi l’anno in Italia. Chi si ritrova senza “voce” solitamente è un adulto e non ha idea di come cambierà la sua vita. Cè bisogno di tanto aiuto e supporto.
In questo il mondo associativo italiano è la seconda linea del fronte. Dopo gli ospedali i centri di recupero, le cliniche di riabilitazione . Ma a volte non c’è il cartello che ti dice dove si trova. Almeno per chi come me Disabile ci è diventato. Invece dovrebbe essere un servizio integrato. È una realtà fondamentale, che sopperisce anche a tante mancanze del nostro sistema. Purtroppo quello italiano è caratterizzato da una distribuzione a macchia di leopardo che ha eccellenze ma anche tante lacune.
D: La tua risposta mi stimola una seconda domanda legata al volontariato italiano che è fra quelli più attivi e copiosi non solamente in ambito europeo. Gli italiani sono più buoni di altri popoli o, storicamente, lo Stato italiano è più “assente” tanto da riversare sul buon cuore dei cittadini attività essenziali rispetto a chi ha bisogno di supporto?
R: C’è chi diventa volontario per scelta e chi per necessità. Pensiamo ai cosiddetti caregiver. Il più delle volte sono parenti, amici di ammalati e Disabili che entrano in questa realtà per forza. Poi ci sono altre persone animate da buone intenzioni e propositi anche se non è facile. Entrare nella stanza di un ospedale e dare conforto a un malato di tumore, non è da tutti.
Le nuove generazioni sono anche più attive di noi. Ci sono ragazzi, liceali, che fanno volontariato a molti livelli e tante belle iniziative. Aiutano compagni di scuola down o autistici. Vanno a casa di ragazzi con problemi. Si può anche fare servizio civile fino a 28 anni, ragazzi e ragazze, presso associazioni e organizzazioni di volontariato.
Ma quello di chi soffre è un mondo così vario e complesso da non poter sempre essere affrontato con facilità. Certo un atteggiamento generale, civile, sociale, più aperto aiuterebbe specie in contesti dove l’ignoranza e la scarsa cultura rendono ancora più difficile la vita a chi è mancante di una qualsiasi facoltà esistenziale.
Penso a dove un Disabile viene perseguitato perché più debole. Magari col silenzio di autorità e istituzioni. Inaccettabile.
Però sta cambiando. Un tempo disabilità come l’autismo non si conoscevano nemmeno.
Ma bisogna comunicare, insegnare, spiegare per far sì che la gente comprenda che può succedere a chiunque di ritrovarsi nel “nostro” mondo. E gli altri con il loro aiuto possono fare la differenza.
D: Bene, ora parliamo di Claudio Razeto professionista. Dall’attività di “Sales & marketing manager” iniziata nel 2000 all’approdo in ANSA.it, qual è stato il percorso che ti ha condotto all’ambito del giornalismo?
R: Come dicevo, ho iniziato a lavorare presto con i giornali. Da quelli di quartiere, una grande palestra, ai quotidiani come Il Messaggero e Paese Sera, ma anche Il Corriere dello sport. Radio e tv private romane. Ho fatto persino una radiocronaca in diretta dal Meazza San Siro, Milan Roma con Pato ai tempi di Falcao. Poi grazie a un esame all’università sono stato preso nell’ufficio stampa dei liberali di Renato Altissimo. Avevo presentato una tesina all’esame di politica economica con allegati due articoli scritti come corrispondente free lance dal Brasile, su Paese Sera. Avevo 20anni e feci colpo sul professore. Mi offrì un lavoro al PLI nazionale dove sono rimasto per diversi anni.
Congressi, elezioni, consigli nazionali. L’agenzia stampa del partito e poi il settimanale. Ero nel cuore della politica nazionale degli anni 80. Vedevo personaggi importanti come Malagodi, Sterpa, ministri e sottosegretari. Biondi, Costa, oltre ad Altissimo un vero personaggio. Una grande esperienza. Era politica da prima Repubblica. Più colta di quella di oggi. Anche se si sentiva che qualcosa non andava.
Tutto finì con Tangentopoli e Di Pietro. Ma posso giurare di non aver mai visto una scorrettezza o ruberia nel PLI, a parte aver conosciuto il famigerato ministro della Sanità Francesco De Lorenzo – condannato – col quale d’altra parte non ho mai lavorato. C’era anche Antonio Patuelli, attuale Presidente dell’Abi, persona correttissima con cui sono rimasto in ottimi rapporti.
A quel punto si è aperta la seconda fase della mia vita. La fotografia e il fotogiornalismo. Cercando un nuovo lavoro ho conosciuto uno dei decani della foto sportiva italiana, Vito Liverani. Fondatore di Omega fotocronache un’agenzia di Milano. Sono andato a fare il direttore, o meglio a imparare come si faceva. E si è aperto un mondo. I testi senza foto o immagini non fanno un giornale e nemmeno un Tg. Da lì è iniziato un periodo in cui ho diretto agenzie a Milano e poi a Roma, e seguito grandi notizie andando sul posto con i fotografi e proponendo i servizi. Il caso della povera Marta Russo, il terremoto in Umbria, l’alluvione a Sarno, omicidi, cronaca nera ma anche sport. Io, che non sono nemmeno tifoso, ho visto tante partite in campo, dietro la rete all’Olimpico, San Siro persino la Nazionale a Liverpool con il Galles.
E poi l’esperienza più forte, la guerra in Kosovo, Albania, Macedonia.
Un’esperienza di vita in cui ho visto tanti volontari italiani, portare aiuto, in uno scenario terribile. Forse il peggiore. La Croce Rossa, le Misericordie, i volontari con la bandiera arcobaleno. Tra profughi, feriti, bambini abbandonati, e morti, purtroppo.
Bombardamenti, raid, campi profughi, ammalati, anziani. Ho ancora negli occhi quelle immagini, gli occhi di quei bambini senza genitori. Il pericolo e la solidarietà che si vive in quelle situazioni. Non le dimentichi.
La terza fase si è aperta negli anni 2000. Prima una società che iniziava a digitalizzare archivi. Mettemmo in digitale quello fotografico degli Aeroporti di Roma. Poi dopo aver fatto un lavoro per l’Ansa, le Olimpiadi di Tokyo con trasmissione delle immagini dagli stadi giapponesi, la responsabile del commerciale che seguiva i media, mi propose di andare al lavorare per l’agenzia più importante d’Italia. Era un sogno che si realizzava. Tutto quello che avevo fatto si allineava. E ci tengo a sottolinearlo, senza raccomandazioni. Curavo la commercializzazione dei servizi ANSA agli editori. Giornali, tv, siti web. Non scrivevo più ma lavoravo con chi lo faceva e sapevo cosa serviva alle redazioni in termini di testi, foto e poi video, perché l’avevo fatto anche io, producendoli.
È diventato il mio lavoro. Un mestiere particolare che mi ha portato a conoscere le più importanti aziende editoriali e internazionali come l’americana Associated Press, la tedesca Dpa e la Afp francese. Ma anche Sky, Rai, Mondadori, Mediaset. Giornalisti, direttori, direttori generali e amministratori delegati. Il lato business dei media.
D: Dopo un periodo lungo quasi un quinquennio, nel 2017 ritorni in ANSA.it. Quanto sei giornalista e quanto social media manager?
R: Sono stato all’ANSA fino al 2011. Poi una pausa di 4 anni a Firenze, con Archivi Scala. Foto d’arte e collaborazioni con grandi musei come il MoMa, il Metropolitan, la National Gallery. Dai fotoreporter alle immagini dei grandi impressionisti o degli artisti del Rinascimento. La ciliegina sulla torta. Ho viaggiato molto per Scala, fino in Giappone e Corea. Visto tanti musei, conosciuto archivi. Arte e cultura. Ero responsabile commerciale e marketing e ho partecipato anche alla realizzazione di diversi progetti editoriali. Libri illustrati con foto non solo d’arte ma anche di storia visto che l’arte è anche storia dell’umanità. Il quadro di Volpeda del Quarto Stato non è solo un quadro ma la foto di un’epoca. O l’incoronazione di Napoleone di David. E ho anche ricominciato a scrivere. Un libro sui Corrispondenti di guerra con 600 foto, al quale sono seguiti altri 11 libri di storia, fino ad oggi.
Roma però mi mancava e nel 2011 sono tornato al mio lavoro in ANSA lasciando definitivamente Firenze.
Nel commerciale fino al 2016. Mercati nazionali e internazionali. Poi, con la malattia, non potendo più viaggiare ho chiesto un nuovo incarico e mi è stata affidata la pagina LinkedIn di ANSA come social media manager. Un’altra bella esperienza che porto avanti nonostante la mia nuova situazione. Devo ringraziare la mia azienda che mi consente di lavorare. È importante. Ti fa sentire utile. E quando posso scrivo. Libri, blog, di tutto. Faccio anche video usando il materiale che ho “girato” viaggiando. Mi aiuta molto. In un certo senso scrivere, continuare a comunicare, mi ha salvato la vita.
D: Abbandoniamo ora la time line della tua vita lavorativa per tornare a quel giorno, a quando entrasti nel “Club Disabilité” a causa di un intervento che ti avrebbe totalmente laringectomizzato. Prima di quella data avresti mai pensato di poter diventare Disabile?
R: Non ho mai immaginato la disabilità potesse toccarmi. È successo tutto molto in fretta. Avevo un costante mal di gola. Variazioni di voce. Ho fatto visite, accertamenti per un anno. Niente.
Invece era un tumore alla base della lingua. Grosso e aggressivo. Con la radioterapia sembrava risolto, poi una recidiva e l’intervento obbligato a Modena, col professor Presutti. Un grande chirurgo e specialista. E una grande persona.
Purtroppo mi aspettava l’intervento peggiore.
Laringectomia totale bilaterale. Asportazione di lingua, corde vocali, linfonodi. Tutto. La voce, la comunicazione, erano la mia vita. Mi sono trovato muto a 55 anni. Un brutto colpo. Prima viaggiavo, facevo addirittura immersione sub. Ora con lo stoma, un buco attraverso il quale respiro, devo stare attento anche a fare la doccia.
Non faccio più jogging. Non mangio e non bevo più come prima. Ho perso 30 chili. È stata ed è ancora dura. Ma cerco di essere positivo e di reagire. Questa è la mia nuova situazione. Devo fare quello che posso con quello che ho. Come il povero Zanardi.
Il dolore è la cosa più difficile da gestire. La menomazione è sopportabile. Il silenzio, anche. Ma il dolore no. E quello delle condizioni fisiche, del male, è un effetto, non proprio collaterale di tanti Disabili.
D: Timori a parte per un tumore che spaventa anche solo con le sue ombre. Come è cambiata la vita di Claudio Razeto?
R: Radicalmente. La medicina moderna ha il difetto di farsi credere quasi onnipotente. Le nuove scoperte le leggiamo sui giornali. Ma non tutti hanno la possibilità di curarsi al meglio. Ci si basa sulle percentuali. Sulle statistiche. Se 40 per cento può essere un gran bel risultato, beh per il 60 per cento che resta fuori non è la stessa cosa.
Di tumore si muore. E le terapie, chemio, immuno-immunoterapia sono pesanti. Ti abbattono, ti tolgono le forze. Anche a livello psicologico.
Un Disabile con un tumore è un disagiato con un problema in più. La paura che il male torni o che si stia nascosto da qualche parte. Cancro è un’ottima definizione.
Una bestia maligna con artigli e chele che si insinua tra le cellule. Nessun dottore ti dirà mai che sei guarito. Il rischio di recidive c’è sempre. Pensi più spesso alla morte. E vedi tanti amici, incontrati in questo viaggio, che non ce la fanno.
C’è da deprimersi.
Vivi giorno per giorno, contento, se ce la fai, di fare qualcosa.
O di goderti quello che la vita riesce a darti.
Purtroppo gran parte del lavoro lo devi fare da solo. La forza te la devi dare tu.
Ma reagire è fondamentale. Anche industriandosi da soli. Perché non esistono manuali. E spesso, chi ci aiuta, è normale – medici, infermieri, volontari – e non ha la minima idea di quello che stiamo veramente passando o quanto ci costa anche solo lo sforzo di fare cose “normali”.
D: «Un comunicatore che non parla.», eppure con solo cinque parole dici molto! Ce le spieghi?
R: Ho sempre comunicato, con la voce o scrivendo. Ora scrivo soltanto. A volte mi basta. A volte no. Ma stando zitto per forza capisci anche quanto fiato sprechiamo spesso, nella vita. Per discutere, litigare, farci e fare male. Bisognerebbe farlo, ogni tanto, il voto del silenzio. Capiremmo tante cose. Anche il valore del non detto. Che a volte è più importante di tante cose. Magari un “ti voglio bene” in più e un “vaffa” in meno.
D: Uno dei dolori di molti Disabili è quello di vivere una vita solitaria nell’affetto più intimo e stretto. Quanto la tua “dolce metà” è stata un valore aggiunto in un momento certamente traumatico?
R: Enorme. Non mi ha mai lasciato solo. C’è sempre stata. A volte soffro per lei per il sacrificio che deve essere starmi vicino quando non dormo, quando soffro, quando mi arrabbio – succede – per la mia situazione. Sarebbe bello andare in vacanza come tutti. Sfogarsi della quarantena da lockdown. Viaggiare come una volta. Ma ancora non posso. E lei sta con me. Oltre a farsi carico di tutto. Dalle medicine in farmacia ai certificati. Dai momenti brutti a quelli migliori. Immagino come deve essere difficile vivere questo disagio, per chi è solo. Non dovrebbe capitare a nessuno.
D: La deficienza, quella più etimologica quindi il non sapere, fa si che la società dei “normaloidi” – termine su cui torneremo – si creda al riparo dal divenire potenziali Disabili. Cosa e perché il mondo della scuola, quello associativo, il giornalismo e la comunicazione hanno sbagliato per far credere una tale menzogna che penalizza chi è Disabile e non tutela chi potrebbe diventarlo?
R: Non è solo una questione culturale. È umano pensare che non capiterà mai, a noi direttamente, quello che ci fa paura. Penso a quante volte ho rischiato in 50 anni mettendo a repentaglio la mi sopravvivenza. Su un elicottero per un servizio fotografico, in moto da ragazzo, senza casco o protezioni. In macchina, come tutti.
Il rischio di farsi male è dietro l’angolo per tutti. Persino tra le mura di casa. È la vita. Per la salute ci vorrebbe magari più prevenzione. Campagne di sensibilizzazione. Il tumore alla gola viene a chi fuma, beve o per l’Hpv un virus da cui ci si può vaccinare. L’alcol e il tabacco fanno male. Eppure non ci si vaccina, si bevono superalcolici sempre di più e i fumatori, nonostante i divieti e gli avvisi sui pacchetti, ci sono ancora. Ho visto un laringectomizzato appena operato andare a fumare di nascosto. Un malato di cirrosi epatica nascondere una bottiglia, in ospedale. Proteggerci da tutto non è possibile. Prevenire sì e anche informarsi. Ma se non si vuole vedere il pericolo non lo si vede e basta. E ci si fa male o si muore.
D: Un tuo collega del Corriere della Sera un giorno mi disse che non si parla di disabilità perché non la si conosce. Follia o verità?
R: La si conosce e se ne parla. Ho sempre pensato che nella vita le azioni contano più delle parole. Oggi si agisce anche di più. Ma a volte conta il modo. Questa storia del distacco da chi soffre, specie dai malati, lo trovo insopportabile. L’atteggiamento di molti in Sanità. Un medico che non ha umanità non dovrebbe fare il medico. Invece capita di incontrate dottori che nemmeno ti guardano in faccia quando ti visitano. O leggono solo le analisi e i pezzi di carta invece di ascoltare e guardare il malato. Ai Disabili dalla nascita può capitare lo stesso. Persone che ti incontrano e fanno finta di non vederti. Quasi fossi trasparente. E poi ci sono tanti che invece ti stanno vicino e ti danno la forza. Come molti infermieri come quelli che si sono presentati in massa per l’emergenza Coronavirus. Rischiando. Tanti li ho conosciuti negli ospedali. Grandi persone. Che rappresentano la vera forza del nostro sistema sanitario. Più di tanti scienziati magari competenti ma anaffettivi. Nelle difficoltà bisogna essere fortunati e incontrare le persone giuste. A volte fa veramente la differenza. Ma il sistema dovrebbe educare anche a questo. Non solo a gestire competenze tecniche ma anche umane.
D: Claudio, tu sei diventato muto mentre io sono nato Disabile spastico e quindi distonico. Se si potesse, “acquisteresti” la capacità di poter nuovamente urlare in cambio dell’indipendenza fisica? O continueresti a “urlare” con parole scritte?
R: Sono contento di potermi muovere. Di camminare. Uscire quando ce la faccio. Vorrei un personal trainer capace di rimettermi in piedi. Parlare se ne può fare a meno. Ho parlato tanto in vita mia. Quello che dovevo dire l’ho detto. Posso scrivere che è meglio. Almeno quello che esprimo resta. Se merita. E la tecnologia aiuta. Magari inventeranno una protesi apposta per me. Ora mi basta essere in forza e non provare dolore. Per il resto vado avanti con quello che ho. Come il mio eroe Zanardi.
D: Nel mio libro “Riprogettiamo il D-Mondo – Tuteliamo il futuro dei Disabili e di chi potrebbe diventarlo” ho anche commentato la tanto declamata Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità che nel suo Preambolo, alla lettera (e), dichiara che «[…] la disabilità è un concetto in evoluzione […]». Secondo te cosa ha di concettuale non poter parlare o non potersi gestire in autonomia?
R: Finalmente inizia a muoversi qualcosa. Da noi in Italia con fatica e non senza discriminazioni. Viviamo in un Paese che purtroppo cerca di dare sempre meno, in termini di risorse e servizi, sopratutto a chi ha bisogno. Uno Stato che vuole prendere sempre di più tra tasse e imposte, a chi lavora onestamente e paga. E fornire servizi scadenti, troppo spesso. Dando magari indennità a chi non le merita, a chi evade le tasse e danneggia anche chi soffre, visto che usufruisce di servizi pagati da chi lavora sul serio. Non al “nero”.
Il sistema ha grandi lacune purtroppo.
La Sanità per prima. Il nostro non è un sistema perfetto. Anzi. Anche i Disabili ne fanno le spese. E i principi vanno a farsi benedire.
D: Come sai, tramite Disabili DOC, ho inaugurato da poco “Progetto FEP” la cui prima cellula è “Progetto Prodotti FEP” e ho definito l’iniziativa «Un nuovo progetto Disabili DOC pensato per il presente dei Disabili e il futuro di tutti.». Tu sei solo una delle molte dimostrazioni di come si può passare da “Normaloidi” a Disabili. Perché quindi manca l’attenzione verso prodotti o servizi più convergenti – ove possibile – rispetto alle necessità che seppure erroneamente potremmo definire “di tutti”? L’erroneamente è riferito al fatto che la disabilità e talmente variegata da rendere nulla l’utopia di poter accontentare tutti.
NdR – Il termine “Normaloidi” non ha nulla di dispregiativo, non manca di rispetto a quelli che il mondo chiama Normodotati; al contrario rispetta e sottolinea come anche nell’ambito della apparente “normalità” vi siano molteplici caratterizzazioni, magari micro, che non allontanano il soggetto dall’utopia di una “normalità di gregge” quando invece è più originale e vicino a sottogruppi di umana natura anziché al più centrale e forse raro conformismo di perfezione.
R: Se la natura ci avesse fatto muti, privi di laringe o corde vocali, magari avremmo sviluppato di più il pensiero .
Forse saremmo telepati. L’uomo comunica per sua natura quindi avrebbe trovato comunque un modo per farlo. Fosse anche a gesti. Ci sono tante persone che si definiscono normali, quando il concetto stesso di normalità è totalmente relativo. Se si studia antropologia culturale si scopre che i comportamenti umani possono essere molto diversi. Da un popolo, da un paese, all’altro. Non per questo un modo, è per forza migliore degli altri. C’è una tendenza a immaginare un mondo di esseri belli, intelligenti, capaci di fare di tutto da un origami a pilotare un aereo. Ma quello patinato, non è un mondo vero. I “diversi” ci saranno sempre semplicemente perché non esistono gli “uguali”. Il conformismo è un’illusione culturale, nel gregge c’è sempre una pecora nera.
Invece avere il controllo di tutte le facoltà fisiche umane è un privilegio. Bisognerebbe averne più rispetto. Magari non mettendo la propria salute, a rischio inutilmente.
Eroi come Alex Zanardi ci mostrano che si può vivere con handicap terribili. Ma purtroppo ci vuole anche prudenza. Cura della propria vita. Cosa che spesso non abbiamo. Normali e non. E così Disabili si diventa anche se non ce lo saremmo mai immaginato.
D: Se l’attuale Claudio avesse una bacchetta magica, quali tre cose sceglierebbe di realizzare o attuare per se e per tutti i Disabili?
R: Serenità, amore, amicizia. Rendere le difficoltà meno difficili. Una vita più semplice. Solidarietà vera e non di facciata.
Meno pregiudizi e più calore umano. Per i Disabili e per chi soffre davvero.
Istituzioni più vicine ai cittadini con problemi e più umane.
Una Sanità più a misura d’uomo e di donna. Per tutti.
Investirei nella formazione di operatori e assistenti sociali. Toglierei alla cosiddetta burocrazia ottusa, tante prerogative inaccettabili. Responsabilità dirette di chi lavora male e procura danni gravi. A famiglie e persone con disagi.
Realizzerei una cura particolare per i bambini Disabili e le loro famiglie, che hanno davanti una vita difficile. Case vacanza. Luoghi. Più strutture, e gruppi di “simili” che come ho provato sulla mia pelle, aiutano a capire cosa ci è successo e a reagire.
Volontari minus dotati. Come chi sta male. Ci vuole un laringectomizzato per spiegare a un altro laringectomizzato come cambierà la sua vita. Consigliando soluzioni anche per problemi di tutti i giorni. Dalla crema per i dolori articolari all’app del telefono che trasforma in voce quello che scrivi.
E vorrei pene severissime per i falsi invalidi. Di cui si parla troppo spesso, più di quelli veri. Questi parassiti fanno pensare alla società, che tanti Disabili sono solo dei furbi che truffano il sistema. Dal tagliando per la macchina alle false pensioni. Per loro e per chi dall’interno delle istituzioni è loro complice, la galera. Perché una pensione di invalidità fasulla non si ottiene senza la spinta dell’amico dell’amico. E sottrarre risorse a chi soffre è ignobile.
Con qualche condanna, magari ben reclamizzata, si eviterebbe la tentazione di provarci. Questo vorrei. Tanto per cominciare.
D: Siamo in chiusura, questa non è neppure più una domanda. Semplicemente “urla” quei pensieri che le mie domande possono non aver evocato, ma che per te sono importanti. Grazie Claudio, ora ascolteremo le tue parole scritte.
R: Viva la vita. Ma una vita che sia come minimo vivibile. Ci sono condizioni nelle quali anche la medicina, come la religione, dovrebbero porsi il problema della sopravvivenza. E quello di come lasciare questo mondo quando non ci sono più le condizioni minime per rendere una vita vivibile e accettabile.
Poter staccare la spina quando non si può più continuare.
E un sereno distacco diventa più importante di una vita fatta di sola sofferenza e dolore.
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