La giornalista Valentina Tomirotti ci concede un’intervista per parlare di sé come professionista e protagonista del progetto Boudoir Disability.
I lettori di Disabili DOC conoscono già Valentina Tomirotti perché le abbiamo dedicato un primo articolo dal titolo «Sexy si scrive con la “D-”» che celebrava la sua iniziativa conosciuta come Boudoir Disability.
Oggi Valentina si racconta ai lettori di Disabili DOC attraverso un’intervista che la vede protagonista principalmente come giornalista e Disabile e poi come “Regina” del progetto Boudoir Disability. Nell’intervista si spiega molto bene il perché una donna Disabile si voglia proporre passando attraverso il proprio boudoir e anche quanto coraggio serve per realizzare l’iniziativa.
Valentina, anche come giornalista, oltre che come Disabile ha una grande conoscenza del D-Mondo e nell’intervista da la sua opinione e interpretazione relativamente a vicende, situazioni e atteggiamenti che interessando i Disabili.
In rete, Valentina, è anche conosciuta come “Pepitosa”. L’intervista è decisamente pepitosa e merita di essere letta con curiosità e attenzione. Per questo motivo vi lasciamo alle parole di una giornalista “a rotelle” molto coraggiosa.
D: Buongiorno Valentina, partiamo dalla domanda “mappamondo”. Chi è Valentina Tomirotti?
R: Sono una Donna e una giornalista a rotelle. Sono quella che non si ferma davanti a niente e i limiti cerco di trasformarli in opportunità. Sono la stessa che non rinuncia a sorridere e che vive su 4 ruote da sempre, quelle stesse ruote che fanno compagnia giorno dopo giorno.
D: Perché Valentina Tomirotti ha scelto di diventare giornalista?
R: Perché amo comunicare qualcosa e scrivere è la mia passione. Impugnare una penna e mettere in fila parole che si trasformano in concetti è senza dubbio il lavoro che rende più liberi.
D: Da giornalista a donna sexy su Boudoir Disability. Perché nasce Boudoir Disability? Cos’è e quale messaggio vuole trasmettere?
R: Rimaniamo sempre nel campo dell’essere Donna, ho solo voluto metterci faccia e cicatrici su un progetto davvero importante per tutto l’universo femminile. Insieme a Micaela Zuliani, fotografa di Portrait de Femme, specializzata nel fotografare il mondo femminile, stiamo portando avanti questo progetto fotografico. Vogliamo dimostrare che una donna può sentirsi ed essere bella anche se non possiede quei canoni estetici imposti dalla nostra società e che può piacersi ed essere sensuale anche se imperfetta e disabile. Abbiamo scelto di provocare giocando con la consapevolezza, la sensualità, la femminilità, tutti fattori presenti nella fotografia Boudoir, da qui la scelta non casuale anche del nome.
L’immagine precedente e quelle che compongono la galleria che di seguito vi proponiamo sono un estratto del servizio fotografico realizzato per il progetto Boudoir Disability dalla fotografa Micaela Zuliani. Protagonista è sempre Valentina Tomirotti.
D: Per quanto mi riguarda lei, Valentina, oltre che donna sexy è una donna coraggiosa. Quanto coraggio ci vuole per parlare attraverso la fotografia con il proprio corpo aprendo il propio boudoir a una visione pubblica?
R: Credo tanto, ma soprattutto tanta consapevolezza e pace interiore o meglio accettazione di se stessi. Volevo rompere uno schema, qualcosa di pre-confezionato, direi che ce l’abbiamo fatta. Il coraggio è dimostrare ciò che si è nella realtà, a luci spente, nella vita di tutti i giorni.
D: In passato vi sono state altre iniziative che rendevano centrale la femminilità Disabile, ricordo, per esempio, il calendario “Angeli nudi”. Boudoir Disability prevede di aprire altre stanze ad altrettante donne Disabili che volessero testimoniare il proprio coraggio, la propria bellezza e la propria sensualità?
R: Certo, questo progetto non sarà una meteora. Ora che abbiamo aperto questo vaso di pandora, che il dialogo è iniziato, non vogliamo smettere. Abbiamo tante idee in mente. Continueremo a farlo per tutte quelle donne che magari non si sentono più riabilitate ad una vita normale.
D: Lei, Valentina, è giornalista e con le parole trasmette contenuti, opinioni e può creare cultura. Attraverso Boudoir Disability oltre che a comunicare con le parole ha scelto di farlo attraverso la fotografia e il suo corpo. Come compagne di viaggio ha due amiche: una è fotografa e l’altra è una make up artist, qual è stato il loro ruolo in Boudoir Disability? Quanto ha significato avere accanto persone che condividessero, con convinzione, la sua o la vostra avventura comunicativa.
R: Il team in qualunque momento è fondamentale. Con Micaela è stato amore a prima vista. Lei è stata la persona perfetta per tramutare in realtà quello che avevamo in testa. Attraverso il suo sguardo dietro ad una macchina fotografica, ha immortalato un bellissimo messaggio di libertà di diritti e diritto di uguaglianza. Luciana è una vera artista, riesce a valorizzare ogni donna senza mascherare o tramutare quello che si è. Ogni colore, ogni sua scelta è solo un tassello in più per scavare nell’essere donna.
D: Valentina Tomirotti è una protagonista coraggiosa. Cosa potrebbe dire ai nostri lettori per trasmettere un po’ del suo coraggio e far sì che i Disabili diventino sempre più protagonisti della propria vita palesandosi maggiormente agli occhi di una società che spesso non li nota o non li vuole notare?
R: Questo progetto è stato un prolungato allenamento zen. È amato, condiviso, criticato, tutto questo mi porta solo ad una considerazione: c’è bisogno di dialogo. Quel dialogo anche scomodo, che esca dal convenzionale. Mi piacciono i fulmini a ciel sereno se sono supportati da sostanza, qui c’è. Non mi piace sentire o leggere che la disabilità va rispettata, trattenuta, nascosta. La disabilità è una condizione di vita, tanto vale viverla alla luce del sole! Quindi è un bene quando se ne parla.
D: Torniamo ora alla Valentina giornalista. Se ha scelto di realizzare Boudoir Disability è certamente per far giungere un messaggio forte alla società. Secondo lei cosa manca ai Disabili italiani per definirsi una volta per tutte come in realtà sono e non come spesso vengono visti o immaginati?
Non ha la sensazione che la società si sia fatta un’idea troppo rosea di quello che io chiamo il D-Mondo basandosi sui pochi, in termini percentuale, Disabili che attraverso la quotidianità o i media si mostrano come persone che hanno saputo raggiungere la propria meta?
R: In Italia manca la concezione base dell’essere disabile, tutto viene relegato alla sfera sanitaria o si punta giocando sulla sfera emotiva. Sicuramente manca un associazionismo degno di un messaggio comune: la disabilità come ho già detto è un modo di vivere con qualche limite o con qualche pregio, rispetto ad altri. Manca la cultura della disabilità, l’attuare i cambiamenti strutturali in modo davvero sensato per migliorare la vita altrui e mi riferisco alle barriere architettoniche, ad esempio.
Manca che il Governo, qualsiasi colore esso abbia, investa su questo mondo. Vogliamo parlare del nomenclatore? Dell’assistenza sessuale? Del dopo di noi? Carne al fuoco c’è, basta voler ascoltare le nostre voci. Solo in questo modo l’idea di democrazia farà dei passi avanti. Per ora si vegeta.
D: Dando per scontato ciò che ci siamo detti durante le nostre chiacchierate affermando che a nessuno dei due piacciono le etichette, cosa pensa del fatto che la nostra categoria sia in costante fase di battesimo?
Mi spiego meglio: da Disabili siamo diventati «Diversamente Abili» per poi trasformarci in «Persone con Disabilità» grazie all’ONU che con questo ultimo termine è convinto di offrirci una maggiore sicurezza sulla nostra identità. Non pensa che si stia “ribattezzando” la nostra categoria solo per la necessità di dare una mano di bianco su un intonaco che con difficoltà rimane aggrappato ai mattoni che ha dietro? Come se non bastasse l’ONU ha tolto dal simbolo internazionale dei Disabili la grafica della carrozzina epurando così lo spiritus di ciò che noi siamo e di ciò che noi dovremmo essere con dignità: dei Disabili. Anche su questo ultimo dettaglio qual è la posizione di una collega?
R: Non amo classifiche, etichette di scadenza o segnali di fumo per catalogare le persone. Vero è che togliere qualsiasi simbolo, concentrarsi su termini che spesso in sé non raccontano nulla, non è un modo di evoluzione ma di involuzione, cioè si tende ad uniformare talmente tanto le persone che si perdono di vista i bisogni reali che invece abbiamo per farci largo nella nostra società. Non m’interessa come mi chiamano, m’interessa che mi chiamino, che riconoscano l’entità. Il mondo della disabilità è anche un mondo di bisogni concreti per arrivare alla fine di ogni giornata e non parlo di economia, ma di beni strutturali, programmazione di servizi, etc. etc.
D: In questi giorni il Parlamento italiano sta legiferando su materie importanti come il “Dopo di noi” e la figura dei caregiver familiari. Federazioni, Associazioni e Disabili hanno già manifestato il loro disappunto per alcuni aspetti relativi, per esempio, alla legge del “Dopo di noi”. Chiedo a lei, giornalista e donna Disabile, come può essere che un mondo associativo che conta più di 2.800 realtà possa essere così ininfluente rispetto alle scelte politiche che vengono fatte e che definiranno gli interessi e i diritti della nostra categoria?
R: Credo si sbagli il nostro approccio a farci sentire. Siamo i primi noi a non credere nelle nostre potenzialità. Credo che riunire il mondo della disabilità sotto un’unica persona possa essere una mossa vincente, senza bisogno di creare discriminazioni per mano nostra. Troppi sono gli argomenti importanti che meritano di essere spolverati dall’opinione pubblica e da chi ha potere decisionale a livello di Stato.
D: Un’altra normativa che aspetta una risposta dal Parlamento italiano è quella relativa alla figura dell’Assistente Sessuale. Lei cosa pensa di questa nuova realtà professionale vista in un contesto italiano e quindi poco aperto a temi che invece dovrebbero essere alla base di un vivere sano e di un vivere completo, e soprattutto privo di importanti rinunce?
R: È giusto parlarne ed agire per l’uguaglianza dei diritti, per rivendicare un bisogno o una necessità. Personalmente sono a favore dell’abilitazione anche in Italia, purché questo ruolo venga normato dalla A alla Z per non cadere in facili equivoci. Quella del love giver è una professione complessa e delicata, che richiede preparazione ed empatia. Vero è che se sfodero la mia vena romantica e non faccio di tutta l’erba un fascio, credo e sostengo che l’amore e l’atto sessuale in sé è qualcosa di possibile e fattibile anche senza richieste di aiuto.
D: Valentina, con un D-Mercato di 3 milioni di D-Consumatori come può essere che entrando in un’edicola non vi sia una sola rivista periodica, un mensile, che tratti di disabilità? Gli editori non hanno mai percepito il business o sarebbe di difficile gestione una simile testata per la carenza di conoscenza relativa al mondo della disabilità?
R: Credo che giochi un mix di tutto questo. Non c’è voglia di sporcarsi le mani su un terreno minato che è la disabilità in Italia. Si passerebbe il tempo a moderare gli insulti o le frasi fuori luogo dettate dalla totale mancanza di conoscenza della realtà dei fatti. Una rivista specializzata forse è una forma velata di discriminazione, un po’ come “Cavalli & segugi”. Sono più a favore che la disabilità venga “ospitata” tra le pagine dei giornali “di tutti”. Articoli da leggere nel tempo libero, dalla parrucchiera, mentre si aspetta l’autobus. Rendere normale l’argomento.
D: Parlando di giornalismo qual è il settore per il quale più di altri scrive Valentina Tomirotti? Quali sono le testate sulle quali si possono leggere i suoi pezzi?
R: Scrivo soprattutto in rete, oltre al mio blog Pepitosablog.com che è un po’ la finestra sulla mia vita, collaboro in altre redazioni: Theitalystyle.com un magazine dove ho una rubrica tutta mia chiamata cactus e su Trippando.it un blog magazine di viaggio dove cerco sempre di raccontare il viaggio dal punto di vista delle 4 ruote così da offrire soprattutto un servizio informativo.
D: Disabili DOC è nato con l’intenzione di diventare un Magazine aperto a contributi non solamente della redazione ma anche di Advisor privati, come potrebbe essere lei, o Enti no profit. Questo perché ho l’ambiziosa, e forse folle, voglia di raggruppare sotto un unico cappello tutte quelle voci che oggi si leggono solo saltando da un portale all’altro o da una pagina Social all’altra. Secondo lei questa idea potrà vincere l’individualismo italiano che forse è anche alla base della frammentazione del nostro D-Mondo?
Uniti non si avrebbe una voce più tonante?
R: In ogni cosa l’unione è forza, eco e condivisione, perché non provarci. Sicuramente il cambiamento, però, deve partire da ognuno di noi.
Io ci sono.
D: Siamo praticamente giunti al termine della sua intervista. Ringraziandola di cuore la invito a regalarci una chiosa che le faccia dire tutto quello che vuole trasmettere.
R: Svelatevi sempre e comunque perché l’imbarazzo non è di chi si mette in posa con le sue cicatrici, di chi non vuole rinunciare a sentirsi desiderata. L’imbarazzo è negli occhi di chi guarda. Ma non riesce a vedere.
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