Se non fosse divenuto Disabile Antonio Giuseppe Malafarina sarebbe giunto al giornalismo? Scopriamo questo e molto altro dalle sue stesse parole.
Spesso una nuova conoscenza porta ad altre. È quanto è capitato per Antonio Giuseppe Malafarina che mi venne presentato dal Sig. Giuseppe Dalmasso della Fondazione Mantovani Castorina. Di lui sapevo solamente che era un giornalista. Sono interessato a scoprire di più perché mi interessa la sua storia.
La conoscenza di Antonio Giuseppe Malafarina, Presidente onorario della predetta Fondazione, avviene dapprima attraverso una lunga e interessante telefonata, tanto interessante da chiedergli se mi concede un’intervista per Disabili DOC ed eccomi qui a proporvela, fatta a un giornalista professionista divenuto tale perché … Beh no, questo dettaglio lo lascio alle parole di Malafarina.
Non perdetevi il racconto di una vita che spesso porta a riflettere. Ora vi lascio al Protagonista DOC di oggi: Antonio Giuseppe Malafarina.
D: Buongiorno Antonio, partiamo dalla domanda “mappamondo”. Chi è Antonio Malafarina?
R: Sai, questa domanda mi è stata fatta più volte e la risposta è sempre stata la stessa: non lo so. Potrei dire che Antonio Giuseppe Malafarina è un giornalista, ed a volte mi tocca dirlo per semplicità, ma non mi piace identificarmi con una professione. Sono una persona e sono in cerca, per questo dico di non sapere chi sono. Quello che so è che credo nella collettività. Nella capacità delle persone. Nella bellezza e in Dio.
D: Ascoltando la tua storia si comprende che tu sei entrato di diritto nel “Club Disabilitè” a causa di un incidente, di un fatto inaspettato. Ci puoi raccontare l’accaduto e come hai vissuto quella che io definisco la “transizione” da normodotato a Disabile?
R: Era il 13 settembre del 1988, avevo appena superato l’esame per la patente ed era una bella giornata di sole nel paese dove trascorrevo le mie vacanze scolastiche, cioè Bovalino, amena località della costa ionica calabrese. Ero in spiaggia con gli amici e mi tuffai per l’ultimo bagno stagionale, visto che nei giorni successivi io e la mia famiglia saremmo ripartiti per Milano. Tuffandomi, là dove mi ero tuffato decine di volte, evidentemente calcolai male le distanze della rincorsa e impattando con l’acqua finii per sbattere con il fondale troppo basso. La testa si piegò in avanti su se stessa e sentii un suono come di una molla tirata che si lascia andare all’improvviso. Rimasi subito paralizzato in acqua. Mi rivolsi a Dio chiedendo di intervenire per amore delle persone che amavo. Improvvisamente un mio cugino si accorse che non stavo facendo finta di fare il morto restando a galla a testa in giù nell’acqua. Mi raggiunse, mi tirò fuori e devo la vita ad un medico che si trovava lì per caso e mi aiutò a respirare. Arrivò l’ambulanza, un catorcio occupato da due infermieri impreparati, fui preso senza il minimo rispetto delle manovre a protezione della colonna vertebrale e fui portato in ospedale, dove arrivai accompagnato dal medico che mi aiutava a respirare e che mi sosteneva a puro titolo umanitario. Era una brava persona che avrebbe anche potuto infischiarsene, insomma, ma che non lo fece e che non finirò mai di ringraziare. In ospedale non sapevano che fare e, solo grazie all’intervento di un amico medico milanese originario di quelle parti, compresero la gravità della situazione e che, contrariamente a quanto sostenevano, potevo salvarmi. Per farla breve fui poi portato all’unità spinale di Legnano in aereo e lì rimasi per quindici mesi, di cui tre passati in Francia per l’impianto di un apparecchio che mi consentisse di respirare da solo. Il 13 dicembre 1989, a 19 anni compiuti, tornai a casa. Ero una persona con una gravissima disabilità, ma ero vivo. E ciò che avevo in testa, e che mi aveva accompagnato in tutto quel periodo, era che la mia vita non finiva lì. Avrei comunque fatto qualcosa per la società. E nella società. La transizione che tu immagini, quindi, fu solo tecnica, non di approccio alla vita. Io continuavo ad essere lo stesso. Solo che, ero convinto, con modalità differenti.
D: Tu oggi sei un giornalista freelance di affermata fama. La tua scelta professionale ha qualcosa a che vedere con l’essere diventato Disabile o semplicemente hai coronato un sogno che avevi già da prima?
R: Mi sono trovato giornalista per caso. Prima del tuffo in mare mi interessavano le automobili, la meccanica, ed avrei voluto specializzarmi in quel campo. Dopo non era più possibile. Così feci diverse esperienze non tralasciando nessuna delle opportunità che incontravo. Mi piaceva scrivere e la sorte mi fece incontrare persone che mi permisero di farlo sui giornali. Devo molto a Minnie Luongo, Candido Cannavò, Franco Bomprezzi e Giuseppe Altamore. Minnie e Franco mi iniziarono al mondo del giornalismo. Candido mi sostenne e Giuseppe fu il primo direttore di giornale a concedermi uno spazio attraverso il praticantato sul quale potei iscrivermi all’ordine dei giornalisti.
D: In una nostra prima chiacchierata abbiamo parlato di come sia difficile comunicare l’argomento disabilità. Mi dicevi che in quanto giornalista periodicamente segui degli aggiornamenti ma che nulla verte mai sul tema drammaticamente trasversale al tutto: la disabilità.
Secondo te quali sono le carenze conoscitive dei protagonisti della comunicazione relativamente al D-Mondo? Cosa dovrebbero sapere di più i giornalisti della disabilità e dei Disabili?
R: Dovrebbero conoscere meglio la terminologia ed i contenuti. La scarsissima informazione che si fa proviene da conoscenze sulla disabilità ormai superate ma ancora ampiamente diffuse poiché, protratte negli anni, sono entrate a far parte del presunto comune sapere. Un po’ come le leggende metropolitane: a furia di parlare di una cosa in maniera imprecisa finisce che quella diventa la cosa di cui parlare e l’imprecisione diventa regola. In buona sostanza siamo ancora legati alla mentalità dell’handicap, cioè di una sorta di svantaggio sociale quando si pensa alle persone con disabilità. Questa è una concezione vecchia di più di dieci anni e può portare ad un approccio eroico o pietistico nei confronti della persona con disabilità e delle tematiche che vi ruotano attorno. Un ruolo decisivo è poi svolto dalla terminologia, che è ancora legata a questa vecchia concezione e porta con sé a locuzioni come diversamente abile, handicappato o portatore di handicap. I giornalisti dovrebbero perciò sapere quale è la terminologia adatta, anche perché il nostro mestiere è quello di usare le parole in maniera corretta, e come gestire i contenuti.
D: Il mestiere del giornalista è estremamente nobile, da il privilegio di riportare le notizie, di informare e anche di creare cultura. Il progresso ha complicato la vita del giornalista obbligandolo ad approfondimenti tematici. Se prima parlare di telefonia voleva dire trattare di un telefono fisso presente in casa, oggi significa dover spiegare un mondo complesso tanto quanto lo è, per esempio, uno smartphone.
Perché quindi non pensare di formare una classe di giornalisti che anziché essere esperti di tecnologia, ad esempio, non siano invece esperti di D-Mondo?
R: Il mondo del giornalismo è complicato ed ha le sue regole. Oggi ci sono già diversi giornalisti che si sono specializzati in questo campo anche se, purtroppo, a parer mio più sulla carta stampata o Internet che non in televisione. Il problema è trovare degli spazi dove scrivere perché il tema della disabilità non è considerato interessante, proficuo, da molti. Bisogna, quindi, non solo formare i giornalisti ma anche gli editori. E questo può essere fatto attraverso i periodici corsi di aggiornamento previsti per gli iscritti all’albo e, soprattutto, con buon senso e buona volontà. Quindi, bene formare i giornalisti ma senza chi dà loro spazio non si va da nessuna parte…
D: Disabili DOC insiste molto sul cercare, promuovere e raccontare il Protagonismo dei Disabili perché crediamo che possa testimoniare molte “fattibilità” spesso ritenute impossibili. Tu di professione sei un comunicatore, come potresti trasmettere ai Disabili che si sono realizzati in qualche settore di rendersi Protagonisti per essere di esempio ad altri?
R: La testimonianza generalmente si diffonde da sé. Se uno è un bravo imprenditore, o operaio o, semplicemente, è uno che riesce ad affrontare bene le difficoltà della vita, prima o poi la gente viene a saperlo. Forse non lo sapranno tutti, ma la collettività si migliora a partire da quella piccola porzione che ci circonda. Aggiungo: un buon giornalista, un buon comunicatore, deve sapere dove trovare persone di questo tipo e deve sentire il dovere di promuoverle per il bene comune. A buon intenditor…
D: Secondo te perché un Disabile che raggiunge le mete che si è prefissato tende a negare la sua stessa natura? Quasi come se risultasse lesiva, se fatta rivivere, nei confronti di quanto il soggetto è riuscito a raggiungere.
R: Sinceramente non mi sono mai accorto di questo atteggiamento. Per esperienza so che molte persone non raccontano la loro storia di primo acchito perché non la ritengono significativa nel raccontare ciò che fanno oggi. Quando parli con una celebrità, per esempio, non è che questa di punto in bianco si mette a parlare del suo passato. Per chi è riuscito ad elaborare la propria condizione di disabilità e ad accettarla questa non è che una caratteristica di sé e, pertanto, non ritiene decisivo parlarne al pari di altre sue caratteristiche. Questo sempre secondo la mia esperienza.
D: Noi due utilizziamo le parole come strumento di lavoro e conosciamo bene il loro valore. Io da anni mi batto per cancellare definitivamente una aberrazione linguistica, culturale e un alibi politico-istituzionale. Sto parlando di come sono stati ribattezzati i Disabili: «Diversamente Abili».
Come possono i Disabili – con le loro associazioni di categoria – accettare una definizione che li dichiara falsamente abili proprio quando l’essere Disabili è l’impedimento al “Diversamente” che nella lingua italiana sottintende la capacità d’azione?
R: Guarda, io credo che si tratti di un miscuglio di fattori. Sicuramente c’entra il politicamente corretto, e quindi si pensa che la locuzione sia vantaggiosa pur mettendo in evidenza una condizione di diversità. Poi c’è una buona dose di impreparazione, ovvero si crede che sia una terminologia corretta poiché per un certo periodo lo è praticamente stata (negli Stati Uniti degli anni Ottanta). Quindi c’è dell’ignoranza, cioè si ignora che l’espressione giusta è “persona con disabilità”. Concludo, quindi, dicendo che l’uso della locuzione è frutto di una misconoscenza che va superata.
D: Tu hai vissuto due epoche della tua vita, quella passata da normodotato e quella presente da Disabile. Come ricordi la tua visione del D-Mondo da normodotato e come ti senti oggi osservato dalla società? Come può maturare la società italiana per raggiungere una volta per tutte la piena consapevolezza di chi realmente è il Disabile?
R: Ti dirò innanzitutto che non mi sento nient’affatto osservato dalla società prevalentemente a causa della disabilità. Mi spiego meglio: se la gente mi guarda lo fa prima di tutto perché nota il mio foulard al collo o i mocassini alla moda e poi perché mi muovo in carrozzina. Quasi mai ho visto del pietismo negli occhi di chi mi ha guardato. Dello stupore, invece, sì. Per ciò che riguarda il mio modo di vedere la disabilità prima di diventare persona disabile ricordo che guardavo alle persone fragili provando affetto verso di loro. Rammento diversi episodi che qui non cito per non dilungarmi troppo. Sul come possa maturare la società per riconoscere maggiore dignità alle persone con disabilità io credo che la risposta sia nella domanda: la società deve maturare e questo richiede il suo tempo. Certo c’è una responsabilità da parte dei mezzi di comunicazione e da parte delle stesse persone con disabilità perché entrambi devono entrare nell’ottica del ruolo formativo che ognuno di essi ha verso gli altri.
D: Io per Disabili DOC ho fatto una scelta editoriale: ho iniziato a puntare il dito verso coloro che non sono ancora Disabili preannunciando loro che potrebbero diventarlo in ogni momento della loro vita e quindi chiedendo la loro attenzione per chi oggi è Disabile e per un loro futuro più “tutelato”.
Un mio carissimo amico mi ha definito simpaticamente “menagramo”, non lo sono e non voglio esserlo perché diventare Disabili non è una passeggiata quindi non lo si augura a nessuno.
Puoi darmi un aiuto per spiegare a quei “non vedenti” che non hanno problemi di vista ma che non guardano oltre quanto sarebbe utile allargare le proprie prospettive?
R: Io non sono considerato menagramo ma temo di iniziare a portarmi appresso la fama di paranoico perché sostengo che, in un certo senso, la disabilità si può trovare ovunque. Cercando di essere sintetico dirò che per essere persone disabili basta avere semplicemente male ad un dito per due giorni, quel tanto che basta che non ti consente di usare bene lo smartphone, ovvero di non poter più partecipare come vorresti al mondo della comunicazione, anche solo per poco tempo. Volutamente non tocco l’argomento vecchiaia, perché se guardiamo a quella, con i problemi di vista, udito, memoria e deambulazione che si porta appresso, siamo tutti veramente disabili in divenire. Ciò che è importante da capire è che una società costituita anche tenendo conto delle esigenze delle persone con disabilità fa bene a tutti.
D: Quali sono i progetti di Antonio Malafarina?
R: Ho un progetto che ti riassumo così: cercare di svolgere il mio ruolo sociale nella collettività. Tempi e modi, dettagli e dimensioni si vedranno via via.
D: Di recente un importante quotidiano ha promosso un sondaggio su quanti potrebbero condividere la propria vita con un partner Disabile. Il risultato del sondaggio non mi sembra proprio in linea con la realtà, lo vedo più che altro basato su una teoria che nulla ha a che vedere con un probabile vissuto. Qual’è la visione di Antonio Malafarina al riguardo e, se ce lo vuoi dire, qual è la vita sentimentale di Antonio?
R: La vita sentimentale delle persone con disabilità oggi può proporre più possibilità che non un tempo. Questo è dovuto ad un innegabile sviluppo della percezione delle persone con disabilità da parte della comunità. Soprattutto oggi le persone disabili sono più considerate di un tempo in grado di esprimere e realizzare una propria sessualità. Una testimonianza che mi colpì molto qualche anno fa fu quella di una persona paraplegica che raccontò di come da disabile le opportunità amorose che gli si offrivano fossero aumentate, e non che prima le mancassero. Per ciò che mi riguarda non ho problemi a dire che ho avuto la possibilità di vivere diverse esperienze sentimentali e che è l’amore è quello cui mi piace puntare.
D: I soggetti che appartengono come noi al D-Mondo hanno delle carenze oggettive date da capacità residue limitate. Quindi la concretezza è tutto. A beffa di questo concetto in Italia si frigge l’aria da 30 o 40 anni con parole vuote che rimandano i problemi, ma che non inchiodano mai a qualche muro i soggetti che dovrebbero provvedere alla soluzione delle problematiche.
Secondo te, di chi è la colpa? Dei Disabili? Delle loro associazioni di categoria? Dell’italica mancanza di progettualità nei confronti del futuro o di cos’altro?
R: Comincio col premettere che secondo me qualcosa si è fatto negli ultimi trenta, quaranta anni. Penso alla scuola italiana, che il mondo ci invidia per come è studiata per includere le persone con disabilità. Vero è, e qui sta un aspetto gravissimo della questione, che da noi spesso le cose si fanno e poi vengono gestite male. La colpa, allora, è sicuramente di una classe politica che non vuole considerare le persone con disabilità destinatarie degli stessi diritti di tutti, ovvero di un modellamento incompleto dei diritti di tutti su misura per chi è disabile. Questa colpa ricade sulle persone che fanno politica in senso stretto, cioè che siedono alle Camere. Naturalmente, poi, ci sono associazioni di categoria che non riescono a fare la giusta pressione perché la politica funzioni. E, non ultimo, ci sono persone che non aiutano la politica. Penso agli imprenditori che non assumono o agli architetti che non progettano per tutti, per esempio.
D: Per te un Disabile che vive in Italia, affogato in una cultura “mammona”, quanta libertà ha anche solo di esprimere le proprie idee ed essere veramente Protagonista della propria vita?
R: La possibilità di esprimere le proprie idee è alta. Basta pensare ai social ed alla possibilità che danno ad ognuno di esprimersi. Al contrario la possibilità di essere protagonisti della propria vita è limitata, specialmente se si vive una condizione di disabilità grave. Non è solo questione di barriere architettoniche che ti impediscono di andare in vacanza dove vuoi, di potersi guardare un film sottotitolato o di mancanza di partecipazione al mondo del lavoro perché nessuno ti vuole assumere. È l’insieme di tutto questo che fa il totale…
D: Qual è il rapporto di Antonio con la sua famiglia visto prima e dopo la “transizione” a Disabile?
R: Sono sempre stato molto legato alla famiglia. Naturalmente a diciotto anni esiste quel conflitto adolescenziale che fa parte della normale condizione antropologica e che ti porta spesso e volentieri a prendere le distanze dai tuoi. Nel tempo impari ad apprezzare il piacere di avere qualcuno che ti ama vicino e che è legato alle tue origini. I miei genitori, oggi, rappresentano il tutto.
D: Si fa un gran parlare del mondo del lavoro e dei diritti che i Disabili hanno per accedere al mondo del lavoro. Secondo te questo non stride con l’invitante possibilità di diventare pensionati prima ancora di accedere al mondo del lavoro che è forse l’opportunità maggiormente inclusa che ha un Disabile? Ovviamente in grado di svolgere un lavoro.
R: In un mondo perfetto, forse. Nella nostra realtà imprecisa, dove accedere al mondo del lavoro è difficile non per motivi attribuibili alle persone con disabilità, è necessario che lo Stato intervenga per fornire un sostegno economico ai suoi cittadini disabili, soprattutto se non in grado di svolgere prestazioni lavorative. Io penso che lo Stato, che peraltro sospende la pensione di invalidità quando si supera un certo limite di reddito, ovvero si è in grado di produrre da soli una certa quantità di ricchezza, deve incrementare le politiche a favore dell’assunzione delle persone con disabilità e per l’avvio di un lavoro da libero professionista delle medesime.
D: Molti anni fa la mamma di un ragazzo che assistevo tramite l’associazione di cui ero Presidente mi disse: «Mio figlio non lavorerà mai!».
Fortunatamente quelle parole non hanno trovato riscontro nella realtà e oggi il figlio lavora ed è Dottore in economia.
Quell’esclamazione giunse da una mamma terrorizzata dal fatto che il figlio potesse perdere i privilegi maturati attraverso la disabilità e relativi a pensione di invalidità, assegno di accompagnamento (per ora non ancora correlato al reddito) e la reversibilità dei due genitori: elementi di sussistenza certi, o quasi.
A giorni Disabili DOC inaugurerà una battaglia che sarà quella di chiedere a gran voce di rivedere l’istituto della pensione di invalidità e il limite di reddito tramite il quale questa e altri benefici si possono perdere.
Qual è il tuo parere relativamente al passare da studenti a pensionati senza il gusto di vivere il protagonismo di essere un’entità produttiva? Come giudichi il tuo Paese che non ti vede come potenziale contribuente?
R: Mi pare di aver già risposto. Lo Stato deve migliorare le forme di assistenza alle persone disabilità e alle loro famiglie. Con 250 euro di pensione al mese non si vive. E con 500 euro d’indennità d’accompagnamento non si assume nessuno. Contemporaneamente deve rendere più efficaci le politiche di accesso al mondo del lavoro per chi è disabile. Il mio Stato è inadempiente. Rispetti la convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e mi consenta di autodeterminarmi.
D: Siamo quasi in chiusura. Rispondi a quelle domande che non ti ho fatto, comunica ai lettori di Disabili DOC quello che Antonio Malafarina vorrebbe che venisse percepito da tutti.
R: Vorrei che si capisse che la disabilità è una condizione che esiste da sempre e che ci riguarda tutti. E non perché necessariamente ci deve capitare una qualche sventura, bensì perché la incontriamo quotidianamente quando vediamo per strada una persona che la vive sulla sua pelle, oppure quando accendiamo la televisione o navighiamo in Internet. Chiunque ha una responsabilità nei confronti della disabilità perché essa è definita dall’ambiente circostante e l’ambiente circostante siamo noi. Se una persona non ci sente e noi non facciamo nulla per andarle incontro quella persona sarà sempre più sorda. La società starà peggio e tutti ne pagheremo il prezzo. Io preferisco vivere in un mondo dove ad ognuno sono offerte delle possibilità piuttosto che imposte delle barriere. Le persone con disabilità non sono inferiori alle altre. Ognuno di noi è diverso ed esprime proprie capacità e bisogni.
D: Poterti intervistare è stato un onore. Personalmente credo e professo la “lucida follia” che per me è il culto del possibile fatto mio grazie all’educazione ricevuta presso l’istituto Don Carlo Gnocchi di Milano. Qual è una tua “lucida follia” che vorresti condividere e consigliare a tutti coloro che potrebbero viverla?
Grazie Antonio!
R: Convenevoli a parte, grazie a te per avermi intervistato. Credo, infatti, nella circolazione delle idee e tu mi hai dato l’opportunità di farne circolare. La mia lucida follia? Vivi, ama!
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